La Domenica del Signore e “La SAGNA”
Prefazione:
I vecchi solevano dire che la domenica fosse “Il giorno der Signore” , poichè i normali ritmi degli altri giorni non avevano nulla a che vedere con questo . Le mie domeniche di una volta , seppur non tanti anni fà infatti , avevano il sapore di un vero giorno di festa.
Ricordo il modo grazie al quale tutto assumesse un tono diverso in ogni suo particolare, rispetto ai giorni nei quali la quotidianità delle cose da fare, volente o nolente donava ai volti e alle cose un tono ben più ordinario e compassato.
Per intenderci … la quotidianità della vita di paese di una volta , laddove la più alta forma di tecnologia che si potesse esibire erano un walkman e la tv a colori in casa , si trascinava tra i volti dei contadini che andavano in campagna e quelli delle donne di casa, che dopo aver mandato A PIEDI figli e nipoti a scuola si dedicavano alle faccende di tutti i giorni.
Il paese si svuotava per poi ripopolarsi nelle ore di pranzo e del primo pomeriggio. Le strade e i cortili tornavano a pullulare di marmocchi rumorosi che giocavano in gruppo, mentre per i contadini arsi dal sole del mattino, le cooperative e le osterie donavano loro ristoro a suon di quartini mezzi litri e litri di vino.
In quei luoghi prendevano vita epiche sfide a carte che per gestualità e urla, non erano seconde affatto ai peggioribar di Caracas. Durante queste partite a carte, ognuno aveva il suo ruolo e posto proprio come il presepe a natale:
- C’erano i giocatori, in religioso silenzio e con i volti imperscrutabili il cui unico movimento era quello della sigaretta o il sigaro da un lato e lo sguardo corrucciato alla John Wayne nello sfogliare e aggiustare le carte.
- Gli osservatori silenziosi intorno al tavolo, che scrutavano le giocate e imparavano dai più esperti
- Gli esperti navigati che giudicavano le giocate appena fatte con un filo di voce o sovente sbraitando in modo irriverente per la brutta giocata del giocatore di turno, apostrofandolo con perle in dialetto del tipo “Je Saria fatto ccosi’ ! “.
Ricordo benissimo il filo sottile che delineava il confine tra il tono rilassato di questi momenti e le risse a suon di parolacce e minacce di quando l’orgoglio, il vino e il caldo, trasformavano quei luoghi in un far west per colpa di una semplice carta giocata male o per uno sfottò di troppo.
Ai miei tempi le persone facevano della Dignità, della Correttezza e della Parola data valori senza prezzo. Quelle stesse persone che la domenica come per incanto si trasformavano come per magia.
La domenica era “R’giorno der Signore” …
e questo giorno aveva il potere di trasformare luoghi e persone come se fossero baciate da un incantesimo.
Lo stesso Sole che durante i giorni di lavoro era insopportabile per la sua forza e calore, la domenica sanciva un giorno di tregua con tutti in paese, lasciando spazio a carezze dal tepore unico che insieme al vento donavano al clima un aspetto rilassante e indescrivibile .
L’aria della domenica mattina aveva sapori e profumi totalmente diversi dagli altri giorni;
- Profumava di Caffè delle colazioni per bambini e mariti preparati ad arte con la vecchia bialetti, dalle mani esperte delle donne di casa.
- Sapeva di bucato steso ad asciugare sui balconi fin dall’alba per evitare che il sole lo bruciasse nelle ore più calde.
- Era intrisa dell’odore di terra bagnata delle piante di gerani e basilico che si ostentavano sugli streghigli (i pianerottoli delle case di una volta), di strade bagnate con secchi e tubi dell’acqua per rinfrescare ancora di più il vento che entrava nelle case dove tutto era aperto e spalancato per far cambiare aria.
- Ma soprattutto l’aria della domenica, fin dall’alba sapeva di sugo di spezzatino e pomodoro messo a bollire fin dalle prime luci del giorno, perché come dicevano le mamme e le nonne di un tempo : ” Jo sugo sà da coce be’… a da restregne sennò de che ssà ? “. (il sugo deve cuocere per bene, deve asciugarsi a dovere altrimenti di cosa sà ?)
Il risveglio:
Tutto questo affinchè a pranzo potesse consumarsi quel rito che riuniva tutte le famiglia come niente ai giorni di oggi sia in grado di fare: Il Pranzo di Famiglia con la pasta fatta in casa o la lasagna fatta in casa che nonna si ostinava a chiamare da decenni “La SAGNA”.
Ti svegliavi con quel profumo misto a caffè e spezzatino, che ti arrivava come un mix tra una carezza e un pugno nello stomaco.
Sul volto che spuntava da sotto le coperte, arrivavano le folate di vento fresco provenienti dalle finestre spalancate per “far cambiare aria” alla casa.
Ti alzavi mezzo rintronato e andavi in bagno a lavarti la faccia. Da bambino fortunato, il bagno della casa dei miei nonni era uno stanzino sul balcone esterno al resto della casa, pertanto dopo lo sbalzo di temperatura tra le coperte e il resto del mondo, ricevevi come premio anche il doverti lavare la faccia con l’acqua gelida a tal punto da congelarti anche i pensieri non appena la gettavi sul viso. Quasi sempre la santa nonna ti seguiva come un ombra per vedere se lavavi veramente la faccia oppure ti bagnavi solo gli occhi con le dita per quanto fosse fredda l’acqua … immancabilmente ti arrivava l’urlo colmo di amore della nonna che ti diceva “Lavate jo mucco ca te sse resbiglia la vita” (lavati la faccia che ti si risveglia la vita) . Se eri fortunato e la nonna era in giornata di grazia , l’acqua per lavarti te la scaldavi sul fuoco con il pentolino altro che miscelatore e caldaia.
Dopo il piacevole risveglio, iniziavano le litigate per la colazione da fare in fretta perchè dovevi prepararti per andare a messa, dove il più delle volte ti toccava fare il chierichetto, pertanto con zero margine di ritardo onde evitare di cadere negli sguardi da giudizio universale di Don Gianni, quindi ti sbrigavi a finirla in fretta e furia per poi cambiarti al volo .
La scena era bellissima e di una romanticità di altri tempi: una cucina da 5 metri quadri dove come per incanto, ci stava tutto perfettamente incastrato.
La stufa a legna con sopra il piano in ghisa per la cottura e di fianco lo sportelletto dove mettere a scaldare il cibo. Su quella stufa in inverno c’era l’usanza di aprire lo sportelletto dove si metteva dentro la legna ad ardere e lasciandolo aperto ci si metteva la forchetta ” a scrocco” con la fettina di pane per fare le bruschette. ( quanti quintali di pane avrà abbruscolito quella stufa non saprei dirlo)
Il lavandino di marmo dove immancabilmente c’era agganciato sul porta saponette di plastica sotto lo scolapiatti “jo scolemareglio” per le mie bevute fugaci prima di tornare di corsa a giocare.
La stufa a gas con il bombolone da un lato grosso quanto la stufa stessa dove c’era a bollire il mondo, tra spezzatino, sugo, acqua per la pasta e brodini vari incastrati in un tetris d’altri tempi.
E per ultimo il tavolo …. da un metro per un metro e mezzo con la struttura vuota di legno e sopra il pianale di marmo grigio pieno di tagli e scalfiture date da coltellate e migliaia di attriti che solo gli anni di utilizzo potevano renderlo cosi .
Sul tavolo la domenica fin dall’alba era posata “La Ntaviatora” , il pianale di legno dove le donne maestre della cucina mettevano in pratica l’arte …. e parlo di vera e propria arte del preparare la pasta in casa rigorosamente a mano.
Ma di questo ti racconterò tra un pochino …. prima devo finire la colazione per poi correre a messa.
Eri li…. incastrato tra il tavolo e la stufa a legna , sulla tua sedia rossa con il copri seduta fatto a rombi di filo avanzato dai vari maglioni e cucito con i ferri a mano dalla nonna. La tua tazza… con dentro latte a temperature vulcaniche e pane del giorno prima messo a mollo . Se eri fortunato ci trovavi due bei cucchiai di zucchero… se lo eri un po’ meno .. al posto dello zucchero ogni tanto la nonna si sbagliava e ti ci buttava due cucchiai altrettanto pieni di sale fino … ( quanto mi manchi nonna ) .
La messa:
Superata la roulette russa della colazione con il rischio sale o zucchero , ti cambiavi e correvi a messa a fare il chierichetto , percorrendo la discesa de “la Tufata” con le tue scarpette della domenica a velocità assurde rischiando il più delle volte i legamenti per le scivolate causate dalle suole nuove dei mocassini.
Arrivavi in sagrestia , indossavi il tuo bel vestitino bianco e il crocifisso … e via di santa messa di Don Gianni per nutrire la tua autostima e la tua purezza contro il peccato . (ne aveva per tutti fin dal canto di apertura… figuriamoci il sermone). Spesso e volentieri prima della fine della messa la chiesa si dimezzava tra chi andava a suicidarsi di suo e chi veniva espulso dalla mano armata del signore sull’ambone .
Ma torniamo alla nonna e alla n’taviatora (la spianatoia) : fin dalle prime luci dell’alba si alzava per andare in cucina e impastare a mano tutti gli ingredienti necessari. Sentivi da lontano lo scricchiolio delle gambe del tavolo messe a dura prova dal peso del suo corpo riversato sù entrambe le mani nodose e mai stanche , per impastare uova e farina affinchè dessero vita ad un impasto di un colore giallo talmente caldo e appetitoso da far venir fame al solo guardarlo .
Una musica ritmata alla quale spesso sottovoce si accompagnavano preghiere e canti di una volta come una litania dolcissima che scandiva il ritmo dell’impastare . Le preghiere erano come benzina per un motore inesauribile di donne di altri tempi forgiate dal sacrificio e dalla dedizione .
Appena finito l’impasto lo lasciava lievitare coprendolo con un canavaccio e con una scodella rovesciata sopra a mò di coperchio in modo tale che lievitasse per bene . In modo sincronizzato faceva i lavori di casa oltre che organizzare tutte le bocche da fuoco disponibili con sughi bolliti e tutto ciò che servisse per creare sia “LA SAGNA” che le fettuccine . Il risultato come per magia era quello di vedere dopo un paio d’ore quei 5 metri quadri diventare 20 per come erano stati ottimizzati e gestiti in modo magistrale.
Quando tutto era pronto … iniziava il rito della preparazione : con fare maestoso iniziava a tagliare con un vecchio coltello i rotoli di impasto trasformandoli in fettuccine la cui simmetria era seconda solo alle moderne impastatrici. Ogni fine rotolo una spolverata di farina fin quando tutta la n’taviatora (spianatoia) era ricoperta di fettuccine pronte per essere cotte.
Nel frattempo sui fornelli iniziavano a bollire le sfoglie di impasto per creare “la sagna” e poi finire nel forno a legna. Il tutto avveniva in religioso silenzio e con un sincronismo di altri tempi degno soltanto di chi queste cose le faceva con il cuore colmo di amore per quello che poi sarebbe stato uno strumento di riunione della famiglia dopo una settimana di lavoro .
Erano gesti dove nei quali a volte rimanevo ipnotizzato nel restare a guardarli silenzioso dal mio angolino vicino alla stufa , perdendomi in quegli sguardi di quella donna apparentemente fissi nel vuoto ma che non appena incrociavano i miei occhi sapevano in un attimo donare amore infinito e un calore che solo l’amore puro può raccogliere.
Tutti a tavola:
Ed era cosi che la domenica mattina si compiva il rito della preparazione del pranzo di famiglia.
Verso le 11.30 iniziavano a tornare verso casa gli uomini , alcuni dei quali avevano passato la mattinata in piazza a parlare di politica e di guerra mentre altri (nonno compreso) erano andati a piedi a messa fino al santuario del soccorso (oltre 2 km di scalinata in salita e sotto il sole senza un attimo di respiro) .
Pian pianino li sentivi arrivare in piazzetta e scambiare quattro chiacchiere con le vicine di casa , si sedevano per le scale e si godevano un pò di aria fresca per poi salire e accomodarsi in salotto in compagnia di un buon mezzo litro.
A seguire arrivava tutto il resto della famiglia da ogni angolo del paese , figli e nipoti come in una processione d’altri tempi che portava a riunire intere famiglie lontane durante la settimana per le proprie vite , ma che in quel giorno recitavano un rito che si ripeteva da anni .
Ed era cosi che arrivava l’ora di pranzo…. la tavola apparecchiata con la tovaglia per la festa e tutti seduti intorno con i vestiti della domenica pronti a compiere il rito del pranzo di famiglia. La stanza era inebriata dal profumo dei dopobarba degli uomini e quello di lavanda degli abiti delle donne fin quando arrivava lei:
In un tripudio di fumi e profumi in salotto faceva ingresso “La Sagna” . In una pirofila gigante veniva poggiata li al centro del tavolo e poi iniziava il rito del taglio . Perchè le nonne e le mamme ti insegnavano anche come andava tagliata e mangiata La Sagna. Poichè era appena sfornata dovevi rigorosamente lasciarla li qualche minuto per poi tagliarla in rettangoli e messa nei piatti piani a raffreddare.
Una volta raffreddata un pochino , il condimento si sarebbe rappreso a tal punto da trasformare il formaggio e il sugo da una temperatura lavica in una crema di altri tempi in grado di deliziare il palato.
Ovviamente ogni tanto qualcuno non osservava il tempo sacrosanto di raffreddamento e osava mettere in bocca un piccolo quadratino di quella delizia, con il risultato di ustioni e lacrimoni fin quando non si buttava in bocca acqua per raffreddare il boccone incandescente.
Come se non bastasse , allo spettacolo de la sagna, seguiva quello delle fettuccine con il sugo di spezzatino e ragù al seguito. Vassoi pieni a tal punto da dover essere portati con due mani venivano messi vicino alla sagna sù un tavolo dove oramai non vi era più spazio per nulla. E cosi sotto lo sguardo e le indicazioni della cuoca iniziava il rito del riempimento dei piatti e del pranzo di famiglia. Come per magia tutto veniva dimenticato e al suono di forchette e bicchieri prendeva vita un rito che univa e ha unito intere generazioni di famiglie.
E lei stava li… in piedi nell’angolo del salotto tra salotto e cucina a osservare marito figli e nipoti mangiare, pronta con quel gesto da illusionista d’altri tempi che non sono mai riuscito a capire come facesse, che ti faceva trovare il piatto pieno non appena ti giravi dall’altra parte. Sorrideva compiaciuta per aver riunito una famiglia con due chili di farina, qualche uovo e tanto amore. Finito il pranzo ognuno tornava alla propria casa non prima di aver preso il caffè e fatto due chiacchiere, lasciandosi alle spalle una domenica dove il tempo e qualsiasi gesto avevano donato come per incanto, un pò di amore a chiunque avesse vissuto quella domenica di festa.
Dedicato a tutte quelle mamme silenziose che per una vita hanno donato amore ai propri figli.
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